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Avvicinare Emily Dickinson #3

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Pubblichiamo la terza puntata di una serie dedicata alla poesia di Emily Dickinson, curata da Giuseppe Zucco. Qui potrete leggere la prima e la seconda puntata.

Che l’amore è tutto quanto c’è
è tutto quanto sappiamo dell’amore,
è sufficiente, il carico dovrebbe essere
proporzionato al solco.

(da Uno zero più ampio, di Emily Dickinson, a cura di Silvia Bre, Einaudi)

Quando Emily Dickinson si ritirò dal mondo, rinchiudendosi definitamente nelle sue stanze, per celebrare il momento indossò una veste bianca, e così vestita si allungò fino alla fine dei suoi giorni, proseguendo come da un’altare verso una porta maestosa, tirandosi dietro lo strascico invisibile delle ore più terribili e più liete.

Natalia Ginzburg, che visitò la casa di Emily Dickinson, oggi un museo a Amherst, non poté non notare in un armadio «un vestito bianco avorio a ricami, che sembrava una camicia da notte». Ampio, senza vita, adatto a ogni uso e circostanza, il vestito ha il collo piatto, dodici bottoni di madreperla, una tasca sulla destra, una balza a pieghe sul fondo. Propagandosi incessantemente come fiamma appuntita, il pizzo agita le pieghe e avvampa gli orli.

Su questa veste bianca si è scritto ogni cosa. Niente infonde più conforto agli uomini che assegnare alle comete un nome. I più vi hanno scorto il segno del candore, della devozione, della rinuncia a una vita ripiegata sulle apparenze e sulle formalità, della dedizione assoluta e maniacale alla poesia. Altri hanno indicato la veste come la punta di un iceberg affondato in un mare assurdo e doloroso. Allora si usava vestire di bianco chiunque soffrisse di epilessia, quasi fosse una divisa ospedaliera più facile da lavare o rammendare dopo gli attacchi più violenti. Un cugino e un nipote di Emily Dickinson ebbero confidenza con questo male – probabilmente arrivò fino a lei per via ereditaria, e i suoi familiari acconsentirono di buon grado alla sua decisione di chiudersi in casa, non solo per proteggerla, ma soprattutto per evitare che un attacco epilettico scatenato in pubblico si risolvesse in uno scandalo. I Dickinson erano pur sempre membri della società puritana del New England che produsse La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne.

Seguendo tali teorie, la veste bianca è il simbolo di una sottrazione, di un venire meno, di una mancanza, a sua volta subita o cercata. Tra l’altro, le voci più insistenti danno Emily Dickinson chiusa a casa in seguito a una delusione amorosa, come se, vestendosi da fantasma, si fosse consegnata al fantasma della persona amata. Questo fantasma dovrebbe portare il nome di Charles Wadsworth, un pastore presbiteriano di cui Emily Dickinson ascoltò i sermoni a Filadelfia, durante l’ultimo viaggio che fece in vita sua. E a onor del vero, moltissimi dei suoi versi rilucono e vibrano di questa mancanza, di qualcosa che, ardentemente, follemente, disperatamente, dovrebbe essere accanto a lei e che tuttavia non c’è.

Scrive Emily Dickinson in una lettera del 1878, «Per chi è fedele l’Assenza non è altro che / il condensarsi della presenza». Così, molto prima e molto meglio di Freud o Lacan, Emily Dickinson rivela senza mezzi termini che la vita è fondata sul desiderio, che la vita è organizzata intorno al desiderio, e che tale desiderio è installato al centro dei nostri giorni come una mancanza, come un pozzo profondissimo e impossibile da colmare, dalla cui bocca nera emergono certi fantasmi evanescenti ma così concreti, così reali, con cui si può perfino parlare, ridere, toccarsi, fare progetti per il futuro, socchiudendo le labbra tanto più felici e spaventati.

Sotto questa luce spettrale, perfino altri versi più oscuri sembrano trovare una particolare luccicanza. «Da un vuoto all’altro, / in un cammino senza senso / muovevo passi meccanici, / per fermarmi o perire / o andare avanti, / a tutto indifferente: // se giunsi a un fine / questo altri fini indefiniti aprì – / chiusi gli occhi a tentoni / procedetti ugualmente: / era meno penoso essere cieca». Ecco cos’è per Emily Dickinson la vita governata dal desiderio. Un cammino incerto da un vuoto all’altro, da una mancanza all’altra, a cui non c’è rimedio, poiché la forza del desiderio agisce in noi meccanicamente, e un desiderio ne apre sempre mille altri, e un desiderio ne chiama sempre mille altri. Anche se Emily Dickinson suggerisce che a volte è meno penoso continuare questo cammino chiudendo gli occhi. Essere perfettamente trasparenti a noi stessi, sapere tutto dei nostri desideri, è tanto impossibile quanto doloroso, poiché ci espone sempre alla catastrofe della mancanza, del vuoto, di ciò che dovrebbe esserci e che non c’è, come se non facessimo altro che camminare sui bordi aperti di una ferita che non si rimargina mai. Scrive Emily Dickinson in una lettera del 1872, «Forse il desiderio è il dono desiderato che nessun dono riuscirà a soddisfare».

Eppure tutto ciò non esaurisce la vita e le opere di Emily Dickinson. Chiunque abbia cercato di farne una figurina da romanzo d’appendice, così depressa e delicata, affetta da una inaggirabile nevrosi, che trae motivo di godimento dalla propria sofferenza, si è poi scontrato con il fenomeno irriducibile delle sue poesie. Se pure i desideri di Emily Dickinson rimasero inappagati, e le spalancarono accanto un abisso che la seguì ovunque, facendole avvertire la vertigine costante della mancanza, ben altra luce scaturisce dai suoi versi, una luce così gioiosa e austera, che rischiara una a una le pieghe del suo vestito bianco, donandogli improvvisamente tutt’altra sembianza. Scrive Emily Dickinson, «Solenne cosa – io dissi – / essere donna nella veste bianca – / e indossare – se Dio me ne fa degna – / il suo immacolato mistero». Ed è impossibile, leggendo questi versi, non immaginare Emily Dickinson nell’ora più solenne della sua vita, vestita da sposa, appena tremante e tanto più decisa, come se fosse sull’altare il giorno delle nozze.

Tra case, cieli, vulcani, api e trifogli, la sposa è una delle figure ricorrenti nei suoi versi. Scrive Emily Dickinson in un’altra poesia, «Sposa mi troverà il nascente giorno. / Hai tu, Aurora, un vessillo per me? / A mezzanotte sono ancora una fanciulla, / Ma come rapide si compiono le nozze! / Allora, o notte, passerò da te / nell’Est, nella vittoria». Vestita da sposa, e tanto più sentendosi un’adolescente sotto la veste bianca, come una donna costantemente sul punto di sbocciare, Emily Dickinson sembra abitata da urla di esultanza, e se queste urla affiorano alle sue labbra e si propagano tutto intorno con scatenatissima allegria, è proprio per sbaragliare i lividi eserciti della malinconia e della mancanza.

Intendiamoci, Emily Dickinson non aveva il culto delle nozze. Sapeva benissimo quale sorte toccasse alle donne una volta sposate nel diciannovesimo secolo. Più che altro soggiogate dai mariti, e secondo i casi depresse come la madre, o tradite alla luce del sole, come accadde a Susan Gilbert, la donna che suo fratello ebbe in sposa, e a cui Emily Dickinson indirizzò lettere tanto appassionate da dare a molti l’idea che l’amasse perdutamente. Quando fu il suo turno, e Otis Phillips Lord, un giudice molto amico del padre e assiduo frequentatore di casa sua, la chiese in sposa, Emily Dickinson prima tergiversò, poi lasciò cadere la cosa, nonostante i due si scrivessero frequentemente, e Emily Dickinson rivolgesse al giudice parole incendiarie, che fanno fiamma perfino adesso, sebbene appartengano a una lettera del 1878, «Confesso che lo amo – godo all’idea di amarlo – ringrazio il creatore del Cielo e della Terra – per avermelo dato così che io potessi amarlo – la gioia mi sommerge. Non riesco a trovare il mio canale – il Torrente si trasforma in Mare – al pensiero di te.»

Molto prima di Virginia Woolf, Emily Dickinson avvertiva la necessità di avere una stanza tutta per sé, in modo da essere completamente libera di scrivere, pensare, amare e vivere come meglio credeva, anche a costo di un sacrificio che le avrebbe avvelenato le ore più solitarie. Ma vestendosi di un bianco nuziale non stava sublimando qualche desiderio represso. L’abito da sposa è il vestito che rende concreto e celebra il sì più convinto. E come Molly Bloom nell’Ulisse di Joyce, anche Emily Dickinson, con il cuore che batte all’impazzata, sì, dice sì, vuole sì. Indossando la veste bianca e illuminandola con i suoi versi, Emily Dickinson non si sottrae a se stessa ma afferma se stessa, non subisce i propri desideri ma li rivendica, e, con un coraggio e una forza senza pari, ridicolizzando le oppressive leggi sociali del suo tempo, si riappropria del suo destino, decidendo da sé cosa ne sarebbe stato dei suoi anni, senza permettere a nessuno di recintare la sua vita. «Una vita dai confini precisi, piccola mia sorella, è quell’abito speciale che ce ne fosse data la possibilità potremmo forse rifiutare di indossare», scrive in una lettera del 1873.

In questo modo, il bianco della sua veste ha poco a che fare con l’innocenza e il candore, se non in minima parte. Già Herman Melville, ragionando sull’estremo biancore di Moby-Dick, scrive «il bianco in fondo non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di colore e al tempo stesso il condensato di tutti i colori». E se nel bianco mancanza e pienezza sono la stessa cosa, e se il bianco non è altro che il segno di una complessità estrema e sfuggente, potrebbe anche essere che, nonostante stesse parlando di una balena inafferrabile, nessuno meglio di Melville sia riuscito a consegnarci un ritratto migliore di Emily Dickinson, esortandoci perfino ad assomigliarle un po’. «In ciò, a me sembra, è dato ravvisare la rara virtù di una forte vitalità individuale e la rara virtù di muri spessi e la rara virtù di un interno spazioso. Oh, uomo! Ammira e prendi a modello la balena! Resta caldo anche tu frammezzo al ghiaccio. Vivi anche tu nel mondo senza essere del mondo. Sii fresco all’Equatore; al Polo mantieni fluido il sangue. Come la grande cupola di San Pietro e come la grande balena conserva, oh, uomo! in tutte le stagioni una temperatura tua. Com’è facile e com’è inutile insegnare queste belle cose! Quanto pochi gli edifici dalla cupola come quella di San Pietro. Quante poche le creature immense come la balena!»

Così Emily Dickinson ribollì anche in mezzo al ghiaccio della sua stanza chiusa, e visse nel mondo senza essere del mondo, e in tutte le stagioni conservò una temperatura sua, e fece esperienza estrema di tutti i sentimenti e in particolare dell’amore – e amò sempre, follemente, perdutamente, e ne diede conto nelle sue lettere e nelle sue poesie, allargando continuamente il raggio e la prospettiva, avendo dalla sua parte, proprio come Salomone, «un cuore che capisce».

Ma che Emily Dickinson abbia amato con tutta se stessa Susan Gilbert, Charles Wadsworth, Otis Phillips Lord, oppure il «Master», il misterioso destinatario di alcune lettere infuocate che nessuno sa chi sia e se sia mai esistito, o ancora di più lo «shapeless friend» comparso in una famosa poesia, l’amico invisibile e senza forme, non fa molta differenza. Come Shakespeare, molto più di Shakespeare quando scrisse Macbeth, Emily Dickinson sapeva che nello stranissimo campo dei sentimenti, così pieno e così vuoto, così mancante e così rigoglioso, così concreto e così impalpabile, «esiste solo ciò che non esiste».

Se è sull’amore che Emily Dickinson concentrò la sua attenzione, facendone tutt’uno con la sua poesia, non fu solo perché intuì che l’amore è una strana forza, una potenza che spalanca improvvisamente i giorni più angusti, liberando enorme energia – «Raccogliersi come un tuono fino al colmo / poi uno sperperarsi grandioso / mentre ciò che è creato si rintana / questo – la poesia sarebbe – // o l’amore – i due vengono insieme». Se Emily Dickinson fece dell’amore il suo territorio privilegiato d’investigazione, scavando a colpi di penna luminosi cunicoli nelle sue profondità, cercando di arrivare più vicina possibile al suo nucleo incandescente, è perché sentì e capì che l’amore con i suoi effetti e le sue illusioni è un sentimento che esonda gli stretti argini di una relazione a due, tanto da riversarsi e depositarsi su ogni cosa.

«Che l’amore è tutto quanto c’è / è tutto quanto sappiamo dell’amore», scrive Emily Dickinson. È un’affermazione paradossale, e immediatamente appare così fondata, ma cosa significa davvero? Che la realtà c’è, esiste, è radicata fuori di noi, ha una sua consistenza – ma che una volta che noi nasciamo, e viviamo, e prendiamo luogo, cominciando ad amare, accogliendo il mondo dentro di noi, sfruttando e facendo nostre le sue possibilità, intessendo relazioni con tutto e ogni cosa, provando a cambiare a nostro vantaggio quanto si dispiega intorno a noi seguendo sia pure istintivamente certi bisogni e desideri, la realtà diventa sentimentale.

Per Emily Dickinson non esiste mondo senza sentimento del mondo – così che la realtà, per essere vissuta, pensata, tramandata, deve necessariamente passare attraverso il filtro del corpo, attraverso il sentire del corpo, rilanciando l’idea che il sentire del corpo è la radice di ogni possibile sentimento del mondo.

Non è un caso se anche Giuseppe Ungaretti abbia intitolato una sua raccolta Il sentimento del tempo, strappando il tempo alla tirannia degli orologi, e riportandolo nell’alveo di un corpo che ama, soffre, gode o si dispera, così che anche il tempo sfugge ogni misurazione esatta, espandendosi o contraendosi secondo i casi. L’unico modo per fare esperimento della realtà è il corpo. E se tutto passa e si riformula attraverso il corpo, tutto è investito dalla forza – oscura, instabile, ambigua – dei sentimenti. La realtà, così, per il modo in cui ne facciamo esperienza, è in larga parte un’emanazione dei nostri sentimenti, del nostro sentire, del nostro essere qui e ora in carne e ossa.

Sapere tutto ciò «è sufficiente», scrive Emily Dickinson. Ma poi aggiunge «il carico dovrebbe essere / proporzionato al solco». E sembrerà ancora più paradossale, ma nella visione di Emily Dickinson i sentimenti non sono qualcosa di volatile, di inconsistente, di invisibile. Sono invece un «carico», sono un peso, sono una materia viva che scava il suo posto dentro di noi, che grava dentro di noi, al punto che in una lettera del 1861 scrive «Mi ha fatta Dio – Maestro – non mi sono fatta – da me – Non so come sia avvenuto – È Lui che ha fabbricato il cuore dentro di me – Via via è diventato più grande di me – e come una madre piccola – con un figlio grosso – mi sono stancata di tenerlo».

Appesantiti dal carico dei nostri sentimenti, noi lasciamo un «solco» a terra. E se la realtà cambia costantemente intorno noi, ciò accade anche per via dei nostri sentimenti, i quali lasciano sempre un segno, producono sempre un segno, modificando visibilmente lo spazio e il tempo in cui prendiamo posto. Anche se le cose nel campo dei sentimenti sono sempre tanto ambigue e instabili che non è detto che a un grande carico corrisponda un grande solco. Proprio per questo Emily Dickinson usa quel «dovrebbe essere», impiegando con estrema sottigliezza una forma condizionale, sapendo che difficilmente c’è proporzione tra carico e solco, tra la portata dei sentimenti e i suoi effetti. Se nel campo sentimentale, costantemente soggetto e attraversato da innumerevoli legioni di desideri, corpi, fantasmi, esiste una qualche legge, questa è fatta per essere smentita.

Eppure, vestita in abiti nuziali, nella sua solitudine così popolata, scrivendo e amando, Emily Dickinson riuscì a scorgere, perfino con un certo spavento, una strana costante nel campo sentimentale, per cui scrisse velocemente questa poesia quasi in forma di appunto, «Circonferenza sposa del terrore / possedendo sarai posseduta / da ogni consacrato cavaliere / che ardisca desiderarti». Possedere, essere posseduti – l’amore, i sentimenti, i corpi, i desideri, i fantasmi, formano una «circonferenza», o ancora meglio un gorgo così persistente dal quale è quasi impossibile uscirne se non se non per cacciarsi immediatamente in qualche altro.

La realtà, in fondo, per Emily Dickinson, si dà per gorghi, a volte perfino intrecciati. E se è su giostre del genere che la nostra vita ruota follemente, annullando con il loro vorticare sconsiderato il tempo in cui tutto inesorabilmente accade, in una lettera del 1864 Emily Dickinson indica – vivendo, amando – dove ci troviamo perennemente, come se non ci fosse gioia più grande, come se non esistesse condanna peggiore, «Non c’è nel per Sempre, né un inizio, né una fine – È sempre Centro, là».

______________________

[Bibliografia: Uno zero più ampio, di Emily Dickinson, a cura di Silvia Bre, Einaudi. Poesie, di Emily Dickinson, a cura di Massimo Bacigalupo, Oscar Mondadori. Lettere, 1845-1886, di Emily Dickinson, a cura di Barbara Lanati, Einaudi. Tutte le poesie, di Emily Dickinson, traduzioni di Silvio Raffo, Margherita Guidacci, Massimo Bacigalupo, Nadia Campana, I Meridiani Mondadori. Moby-Dick, di Hermann Melville, traduzione di Ottavio Fatica, Einaudi. Centoquattro poesie, di Emily Dickinson, traduzione di Silvia Bre, Einaudi.]

[Bibliografia 2: il riferimento a Salomone viene da Il libro di tutti i libri, di Roberto Calasso, Adelphi. La traduzione di un verso del Macbeth di Shakespeare viene da Absolutely Nothing, Storie e sparizioni nei deserti americani, di Giorgio Vasta e Ramak Fazel, Quodlibet, di cui si è parlato anche in questa intervista.]

[Bibliografia 3: i dettagli del vestito bianco di Emily Dickinson sono stati tratti da un articolo della Paris Review, scritto da Martha Ackmann, e intitolato Emily Dickinson’s White Dress. Alcune considerazioni sui versi di Emily Dickinson apparse qui risalgono, seppure in una forma stringata, a un altro mio articolo pubblicato su Minima & Moralia e intitolato Audacia e rivelazione – Dodici passaggi ne “La vita delle ragazze e delle donne”, l’unico romanzo di Alice Munro.]

_____________

[Fonte immagine: la fotografia del vestito bianco di Emily Dickinson è di James Gehrt, ed è stata pubblicata sulla Paris Review a corredo dell’articolo Emily Dickinson’s White Dress.]

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